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18/12/2013 - Succede in Cittą / Eventi

"DOPO DI NOI": DOPPIO CONVEGNO A PORTOGRUARO E SAN DONA'

L112 - Protezione e assistenza delle persone con disabilitą grave..

 

Dalla Relazione introduttiva dell’Avv. Ilaria Giraldo alla Seconda Sessione del 

📌 Convegno “La tutela della vita oltre la vita. La Legge 22 giugno 2016, n. 112 sul Dopo di noi. Protezione e assistenza delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare. Aspetti giuridici, patrimoniali, socio-sanitari”

📍14 dicembre 2019, S. Donà di Piave (VE)

 

✒️ [...] Ringrazio naturalmente i relatori tutti per aver accolto l’invito degli organizzatori a portare un prezioso contributo alla discussione su un tema importante e difficile.

Difficile e drammatico.

Sì perché la cronaca, anche recentissima, purtroppo, registra fatti devastanti: che un genitore uccida un figlio perché il figlio è disabile, è devastante.

E che questo gesto venga compiuto con l’intenzione di compiere un atto d’amore ci fa veramente “tremar le vene e i polsi”.

Eppure accade. Ed è accaduto non più tardi di qualche giorno fa a Orbassano, in provincia di Torino, dove una donna, una madre di 85 anni, ha ucciso a martellate la figlia disabile, fisica e psichica, di poco più di quarant’anni.

Non possiamo naturalmente fare azzardate deduzioni, anche se alcune testate giornalistiche hanno riferito che l’anziana madre, dopo l’omicidio, avrebbe cercato di togliersi la vita autosomministrandosi dei farmaci in quantità potenzialmente letale, lasciando un biglietto, indirizzato alla figlia, in cui avrebbe scritto: “hai finito di soffrire”. Ma di una cosa siamo certi: il gesto di questa madre non è un gesto che possiamo definire tout court come folle o lucidamente folle; è un gesto lucido, forse addirittura un atto premeditato, un atto di volizione che trova con ogni probabilità la sua ragione nella profonda disperazione di un genitore, molto anziano, logorato nell’animo dalla prospettiva di lasciare sola e abbandonata una figlia non autosufficiente che forse avrebbe potuto, e certamente avrebbe dovuto essere tutelata da una legge di cui molto si è parlato, e su cui molto c’è ancora da dire.

Perché, purtroppo, spesso i provvedimenti legislativi, se non adeguati o se non adeguatamente applicati per le ragioni più svariate, rimangono dei manifesti vuoti che polemicamente vengono poi percepiti non per il loro intrinseco valore ma come coperte corte della politica.

La legge del Dopo di noi, purtroppo, non fa eccezione, anzi.

Siamo qui oggi per porci questa precisa, scomoda serie di domande: perché una donna di 85 anni ha a totale carico suo e del marito, ancora più anziano, una figlia di 45 anni non autosufficiente? Perché una donna di 85 anni arriva a un gesto di disperazione così estremo e così agghiacciante e cruento come ucciderla a colpi di martello? Perché una madre e un padre, in un paese civile, devono vivere con l’angoscia che un figlio, che da solo non ce la fa a gestire, a indirizzare, ad amministrare la propria vita, debba sopravvivere loro? Perché è così terribile che ciò accada, al di là del raccapriccio mediatico, in sostanza nell’indifferenza generale? Perché gli imprescindibili aiuti sono demandati ai parenti più o meno prossimi, alla disponibilità e alla generosità delle persone che sono accidentali compagne di viaggio in una rete precaria e quantomai incerta (i vicini di casa come nel caso di cronaca), al supporto delle associazioni di categoria che, pur guidate da persone volenterose e meritevoli, hanno a disposizione risorse estremamente limitate e una capillarità che, per quanto diffusa e articolata, non riesce a raggiungere ogni situazione e certamente non può farlo di propria iniziativa, abbattendo ogni ostacolo e ogni barriera in ogni contesto sociale, anche quelli in cui la barriera della vergogna è ancora uno degli ostacoli più importanti e più difficilmente superabili.

Perché dobbiamo chiamare le cose con il proprio nome: nella nostra società troppo spesso manca la cultura della disabilità.

Manca il concetto della disabilità come risorsa, e questo -dobbiamo riconoscerlo- è il triste retaggio di parte delle nostre radici culturali.

Nell’antichità classica, in Grecia, il rifiuto della malformazione fisica congenita (ad eccezione della cecità, che aveva una valenza diversa) portava addirittura all’eliminazione fisica del neonato, in conformità al culto del kalòs kai agathòs (ciò che è bello e anche buono); la bellezza e l’integrità fisica e psichica erano considerate espressioni della grazia divina, mentre bruttezza, deformità e deficit psichici erano considerati una punizione soprannaturale. Era accettata e suscitava compassione solo la disabilità generata da malattie, incidenti, dalla guerra e dal fisiologico deterioramento del corpo dovuto all’età.

A Roma le cose non erano molto diverse, anzi forse sarebbero andate anche peggio se è vero quello che un autorevole studio -che io ho rinvenuto in un interessantissimo saggio della professoressa Eva Cantarella- sostiene e cioè che lì addirittura, in epoca remota, non si sarebbero salvati neppure gli anziani ultrassessantenni, che sarebbero stati sistematicamente eliminati.

A tacere di quanto avvenuto nei campi di sterminio in tempi drammaticamente vicini. E l’eco è ancora molto, troppo forte.

È però altrettanto vero che presso altre popolazioni, geograficamente più lontane da noi, i riti di iniziazione all’età adulta o a uno stato sociale diverso passavano necessariamente attraverso una menomazione: dal taglio dei capelli, all’estrazione di un dente, all’autoamputazione di una falange di un dito. Certi riti, rigorosamente codificati, talora cruenti e inaccettabili per l’uomo moderno, devono tuttavia essere letti per quello che significavano: la presa di coscienza del dolore e della diversità, della disabilità è un passaggio essenziale, è l’opportunità di accedere a un livello di consapevolezza superiore attraverso una privazione.

Nella letteratura contemporanea per ragazzi si annovera il libro di una scrittrice statunitense, Sharon M. Draper, che si intitola “Melody”.

Nei giorni scorsi, tra una ricerca e l’altra, nella preparazione di questo mio intervento, mi sono imbattuta in rete in questa copertina, una bimba con la testa in una boccia di pesci, che aveva un che di familiare. E mi sono ricordata di averla vista nella libreria di mia figlia Maria Vittoria, di quindici anni. Le ho chiesto: “Me lo presti, vorrei leggerlo”. Mi ha risposto: “Leggilo, è un libro molto triste, ho pianto tanto, ma è molto bello, è tra quelli che mi sono piaciuti di più, fino ad oggi. Brava mamma”. Sì, mi ha detto proprio così: “Brava mamma”. Credo che in quel “brava” ci sia decisamente tutto quello che deve esserci: un’adolescente che dà per scontato che siamo noi adulti che dobbiamo maturare una presa di coscienza che in lei evidentemente è vissuta con profonda naturalezza. E io sono certa abbia ragione. Dobbiamo imparare dai nostri figli, dalla loro capacità di essere naturalmente inclusivi, molto spesso più di noi adulti, che invece diamo per scontato di fare abbastanza, ma non è così.

L’errore più grave è quello di credere che, essendo quello della disabilità in fin dei conti un problema privato, sia in fondo naturale lasciare un carico insostenibile alle famiglie in forza del legame affettivo.

Ora è vero che la famiglia è una risorsa incommensurabile.

Rimaniamo sul piano della letteratura, quella italiana, stavolta.

Probabilmente tutti abbiano letto (forse già a scuola) la novella “Rosso Malpelo” di Giovanni Verga: qui, nella contrapposizione tra i due personaggi, entrambi emarginati dal contesto sociale, Rosso -a suo modo disabile perché diverso- e il piccolo deforme Ranocchio -apparentemente il più segnato, nel corpo, tra i due-, è proprio quest’ultimo quello più fortunato, perché a differenza dell’altro gode dell’affetto di una famiglia. Rosso Malpelo, che si avventura in un’impresa impossibile e non fa più ritorno, muore in definitiva di solitudine, mentre Ranocchio, nonostante la sua triste fine, è un personaggio che ha una sua positività, continua a guardare il cielo e a credere nel Paradiso, perché lui è consapevole che ha una famiglia che lo ama e che anche in una vita triste c’è del buono.

In effetti l’essenza di ogni relazione affettiva è il senso di protezione che ad essa è connaturato.

Ma non va persa di vista la tragicità della realtà, per quello che è: il confronto con la dimensione della disabilità non ha la leggerezza, la consistenza e la dolcezza dello zucchero filato. Oltre ogni ipocrisia, è amarezza, è un macigno, un supplizio quotidiano che l’amore per chi si ama non allevia. È un amore difficile, immenso, incomprensibile nella sua vastità da chi non si trova a doverlo vivere. È incomprensibile tanto nelle sue manifestazioni naturali quanto in quelle contro natura, come il gesto insano di una madre che pone volutamente termine all’esistenza della propria figlia per disperazione, un gesto davanti al quale non possiamo che rimanere interdetti, senza essere in grado, noi, di pronunciare né parole di condanna né di assoluzione che competono eventualmente alla giustizia divina, per chi vi confida, certamente a quella degli uomini a cui, in questi frangenti, sono demandate decisioni indescrivibilmente difficili.

In definitiva, è più che mai necessario che non venga meno l’attenzione sulla necessità che vi sia un intervento a un duplice livello: normativo, per portare a compimento il processo che la Legge 112 ha iniziato, ma non esaustivamente concluso; istituzionale, serio e rigoroso, per attuare in concreto quello che è il problema veramente atroce del “Dopo di noi”, ossia che molte, moltissime persone vivano ancora nell’angoscia costante e lancinante di quella che sarà la vita, dopo la propria vita, di un figlio.

E questo sì che è veramente contro natura.

 

✒️ Avv. Ilaria Giraldo

 

 


 

 



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